Gianluigi “Gigi” De Palo ha 47 anni ed è sposato da quasi vent’anni con Anna Chiara Gambini. Padre di 5 figli è da sempre impegnato sui temi delle politiche familiari.
Già presidente delle Acli di Roma e del Forum delle famiglie del Lazio, ha ricoperto il ruolo di assessore tecnico alla famiglia e alla scuola del Comune di Roma dove è riuscito a realizzare localmente il Quoziente Familiare.
Nell’ottobre del 2014 è stato il promotore del “Movimento dei passeggini”. È stato presidente nazionale presso il Forum delle Associazioni Familiari ed è ora presidente della Fondazione per la Natalità.
Giornalista e scrittore, attualmente si occupa di formazione alla leadership etica.
È stato a Cuneo ospite degli incontri del nostro “Gennaio Salesiano” dove ha parlato di natalità, della crisi della natalità in Italia e delle speranze per il futuro, partendo dall’analisi dei dati e dei numeri per arrivare a raccontare quello che in tanti anni ha visto e sentito girando per l’Italia come Forum delle Associazioni Familiari e suggerendo quello che tutti, e in particolare il mondo cattolico, può fare.
Gli impietosi dati demografici in Italia
Nel 1945, siamo alla fine della guerra, le nascite in Italia erano 821.000. Nel 1964 nel pieno del boom economico siamo arrivati a 1.035.207 nascite. Poi nel 2018 le nascite si attestano a 439.747.
Dal 2008, l’anno della grande crisi economica internazionale, in poi, i nati in Italia sono sistematicamente diminuiti, un crollo continuo e vertiginoso e nel 2022 abbiamo raggiunto il minimo storico di 392.598 nascite. Ma nel 2023 sarà ancora peggio. Non ci sono ancora i dati ufficiali ma già sappiamo che saremo a non più di 385.000 nascite.
Ma è la differenza tra nati e morti che impressiona ancora di più: fino al 2004 la popolazione italiana aumentava anche se di poco, in media 555.000 erano i nati e altrettanto i morti. Dal 2008 la situazione si fa sempre più pericolosa.
Negli ultimi anni perdiamo in media 301.000 abitanti, come se ogni anno sparisse dall’Italia una città come Catania o Bari. Nel 2022 i morti sono stati 715.077, con un saldo negativo di 321.744 italiani.
Sono dati preoccupanti perché così si incrina un sistema che si basa su un equilibrio intergenerazionale.
Ci piaccia o no oltreché dal punto di vista culturale della ricchezza delle persone che vengono a mancare, c’è in ballo anche una questione economica.
Le proiezioni future
Oggi l’Italia se la cava ancora: nonostante tutti i problemi, nonostante i Governi che si susseguono oggi è il 9° Paese come Pil. Ma gli economisti dicono che nel giro di 20 anni arriverà al 25esimo posto se continuano questi dati demografici.
Non c’è ricambio generazionale, mancano i nuovi giovani, e dunque energia, lavoratori e non c’è speranza.
E senza tutto questo la prima cosa che crolla è il Pil, i dati e l’aspetto economico. La Svezia ci supererà, crollerà così il sistema pensionistico ma la cosa più grave, e che ha ripercussioni per tutti, che già oggi si sentono e patiamo sulla nostra pelle, è che crollerà il sistema sanitario pubblico che in Italia è universale.
Questo sistema eccezionale, frutto di tanta fatica e lavoro e scelte lungimiranti dei nostri nonni e padri, crollerà perché aumentano sempre più gli anziani e i non autosufficienti e diminuiscono i giovani, chi paga le tasse e chi produce, che sono quelli che foraggiano il sistema.
In Italia l’età media oggi è 45,6, il Giappone che sta peggio di tutti è a 48,4 anni. In Africa oggi ci sono oltre 200 milioni di persone che in questo momento hanno 0 anni, in Europa meno di 45 milioni.
Non possiamo nasconderci dietro il discorso chiudiamo i porti, lasciamoli a casa loro: noi non ci saremo più qui sul nostro suolo e c’è gente che ci vuole stare.
La questione migrazioni è un tema di grande riflessione, è un problema complesso che non si affronta chiudendo i porti o lanciando slogan populisti.
Nel 2.100 saremo oltre 10 miliardi sulla terra: gli africani saranno 4 miliardi, gli asiatici 4,5 miliardi, tra Europa e Nord Americhe, il cosiddetto Occidente, saremo meno di un miliardo.
Giovani e vecchi
Noi spendiamo ogni anno per le pensioni il 57,8% della spesa sociale, il 40% della spesa corrente che significa il 16% del Pil.
Per la famiglia e i figli appena il 6,2% della spesa sociale: un dato che è totalmente sbilanciato ma è sbilanciato perché ci sono tanti anziani e perché la politica si riempie la bocca sulla famiglia ma nei fatti se la dimentica.
Siamo felici perché in Italia si vive meglio e più a lungo (5 anni in più di un americano), ma alla luce di questo decremento demografico c’è anche tanto da temere.
I giovani devono ringraziare gli anziani perché viviamo in un bel paese libero, ma gli anziani dovrebbero fare il tifo per i giovani perché sono i giovani che gli assicureranno un futuro e una vecchiaia serena.
Per questo è fondamentale la solidarietà intergenerazionale e non la conflittualità.
Cosa fare?
Con questi dati a disposizione si devono fare pensieri seri a livello politico. Ma non avviene purtroppo, si inseguono solo facili consensi con leggi di oggi che metteranno ancora più in difficoltà un sistema che è già alla frutta.
La soluzione non è quota 100 o quota 101, l’unica quota che assicura la pensione è quota 500.000, ovvero, mezzo milione di nuovi nati all’anno entro il 2033.
Si deve ritornare al dato pre 2008 di 500 mila nati l’anno per i prossimi dieci anni. Solo questo assicurerà la pensione a tutti.
Così stiamo andando dritti contro un muro. Già nel 2025 saremo il Paese che spenderà più al mondo per le pensioni. Eppure oggi l’Italia è il Paese che va in pensione prima rispetto agli altri Paesi europei.
Ma non c’è un pensiero e una strategia. Chi va in pensione oggi con le nuove quote non va gratis, pesa su chi lavorerà da oggi in poi.
È come il Pnrr che è buono e bello ma non è gratis, è sulle spalle delle generazioni future.
Per questo bisogna stare attenti a come si spendono i soldi. Con il Pnrr arrivano più soldi che nel “Piano Marshall” (il piano di aiuti statunitensi per la ricostruzione dell’Europa dopo la Seconda guerra mondiale).
Ma all’epoca ha cambiato l’Italia facendolo passare da un Paese di contadini alla quinta potenza mondiale.
Il Pnrr potrebbe avere questo impatto ma non sappiamo come vengono gestiti e usati questi fondi in questa confusione istituzionale e di poteri.
Lo studio sui giovani
Sui giovani si dicono tutte le peggiori cose. Il professor Alessandro Rosina dell’Università Cattolica di Milano ha fatto uno studio e ha chiesto ai giovani cosa desideravano di più dalla vita: il 94% ha risposto una famiglia, un lavoro e dei figli, che non mi sembrano desideri impossibili e soprattutto molto concreti.
Alla domanda su quanti figli avrebbero voluto avere la risposta è sorprendente: più dell’80% ha risposto due (al 50%) o più figli, solo il 6,9% non vuole figli, e il 13,9% uno solo.
Poi alla domanda su quanti figli in realtà uno pensa di poter realmente avere, il dato crolla.
Ma se si mettono Francia e Italia a confronto si scopre un dato interessante: in Italia il desiderio di essere genitore è più alto che in Francia ma in Francia si fanno molti più figli. Questo vuol dire che se i giovani italiani avessero le stesse condizioni, politiche di sostegno e agevolazioni alla famiglia della Francia, o degli altri Paesi europei, in Italia nascerebbero molti più figli. Basterebbe cambiare le condizioni e le leggi (dai mutui al lavoro, dai permessi alla scuola).
Lo studio di Rosina va anche alle motivazione del perché uno vuole una famiglia. Chiede come uno si sentirebbe alla nascita di un figlio: l’82% ha detto con più senso nella vita perché un figlio è qualcosa che dà un senso, una percentuale aumentata al 90% per chi un figlio l’ha avuto. E il 95% ha detto che grazie alla nascita di un figlio si è sentito molto fiero e realizzato.
Quanto costa oggi un figlio?
Oggi in Italia l’Istat attesta che la prima causa di povertà è la perdita di lavoro di uno dei componenti della famiglia ma la seconda è la nascita di un figlio, in un paese a nascita zero. Questo è lo scenario molto chiaro e non bisogna fare tanti studi sociologici per capire: il problema è immediato, e meno male che i giovani non sono bamboccioni come dice qualcuno e hanno senso di responsabilità.
Ma quanto costa un figlio? I dati Istat e Federconsumatori attestano che il mantenimento di un figlio da 0 a 18anni in Italia costa 172 mila euro, più 160 mila per la formazione, dall’asilo nido all’università: in totale 332.000 euro da quando una nuova vita nasce alla laurea.
Un dato chiaro, intanto noi famiglie italiane facciamo un investimento enorme e poi i giovani vanno all’estero perché in Italia ci sono poche opportunità, e all’estero fanno famiglia e figli: esportiamo cervelli e pancioni. Alla denatalità aggiungiamo il problema dello spopolamento.
Emerge una situazione italiana catastrofica stando ai dati. La gente è triste demotivata e stanca ma i numeri parlano perché la natalità, fata di dati, non la puoi fregare.
È un problema politico che dura da tempo ma nessuno lo vuole affrontare al di là degli slogan sull’importanza della famiglia.
La politica non sta facendo niente, sta procrastinando il problema.
E i cattolici?
I cattolici sono totalmente rassegnati e fanno una narrazione sbagliata. Non sappiamo più raccontare la bellezza della famiglia. Papa Francesco ci ha dato perle di saggezza attraverso “Amoris laetitia”, l’esortazione apostolica sull’amore e sulla famiglia.
È identica dal punto di vista del magistero a quelle precedenti ma è molto nuova e diversa nel linguaggio.
La colpa di questo racconto distorto sulla famiglia è nostra e non della massoneria, delle lobby LGBT, dei giovani svogliati, dei social network.
Queste sono le scuse che il mondo cattolica trova per giustificare le proprie mancanze.
Tra l’altro i dati di oggi sono frutto di scelte di 25 anni fa dove tutto questo non c’era: non c’erano i social e i giovani svogliati di oggi non erano neppure nati.
Il profumo del pane
Eppure il mondo cattolico è ancora tanta roba oggi in Italia. Non esiste una realtà capace di parlare così tante volte e in modo così capillare come la Chiesa cattolica: parrocchie, catechismi, gruppi, associazioni, movimenti, la scelta dell’ora di religione a scuola, che coinvolge l’84% dei ragazzi.
Ma nelle nostre parrocchie e oratori non riusciamo più a raccontare la storia più bella del mondo che è Gesù Cristo nato, morto e risorto.
Non riusciamo a raccontare la bellezza di una famiglia, al di là dei numeri e delle politiche. Se mi sono sposato o ho fatto cinque figli non è perché in parrocchia mi hanno detto che bisogna sposarsi, perché il matrimonio è un sacramento e perché bisogna essere aperti alla vita.
L’ho fatto perché era bello, perché ho visto gente felice di essersi sposata, felice di avere dei figli, ho visto che è molto più bello che faticoso.
Ed è ancora il Papa a ricordarcelo e scriverlo:
“Per molto tempo abbiamo creduto che solamente insistendo su questioni dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare l’apertura alla grazia, avessimo già sostenuto a sufficienza le famiglie, consolidato il vincolo degli sposi e riempito di significato la loro vita insieme. Abbiamo difficoltà a presentare il matrimonio più come un cammino dinamico di crescita e realizzazione che come un peso da sopportare per tutta la vita”.
Che cosa ci dicono queste parole? Per raccontare la famiglia, i figli, la bellezza bisogna partire dagli ingredienti.
Se metto qui acqua, lievito, sale, farina, olio e vi dicessi di sentire il profumo del pane, mi prendereste per matto. Ma se metto qui una pagnotta appena sfornata di pane e vi facessi sentire la crosta che scrocchia sarebbe diverso, mi credereste davvero.
Questo è il cristianesimo e questo è il parlare della famiglia. Non vengono prima gli ingredienti e poi la pagnotta ma viene prima il profumo del pane e poi c’è qualcuno che ti chiede quali ingredienti hai messo.
Il cristianesimo non funziona per convincimento e proselitismo, ma per attrazione. Si fanno i figli se vedi intorno a te qualcuno felice con i figli, se senti il profumo del pane.
Ti sposi non perché il matrimonio è un sacramento ma se vedi che quello ti può rendere felice.
Se quella felicità è perché sei disposto a dare la vita per tua moglie e viceversa.
Scelte politiche e scelte culturali
Per far ripartire la natalità bisogna creare le premesse politiche e battersi per questo ma bisogna creare anche le premesse narrative perché la nascita di un figlio non sia un peso da sopportare tutta la vita.
Ma bisogna avere Governi che investono sulle famiglie. È sia una questione economica che culturale: non serve far sentire chi fa un figlio un eroe ma serve dire e far toccare con mano che fare un figlio è la cosa più bella del mondo.
Quando i miei genitori parlavano del futuro lo vivevano come una promessa e si aspettavano molto dal futuro come qualcosa di inarrestabile, bello, solare, radioso.
La mia generazione percepisce il futuro come un’incognita. I miei figli lo percepiscono come una minaccia.
Lo stanno vivendo in maniera angosciante tra pandemie, cambiamento climatico, guerre: la narrazione della crisi ci porta a questo, ci induce a fare il pensiero del perché i figli li metto a fare al mondo se non sappiamo dove andare.
Nascono più figli quando hai davanti il desiderio di un cambio di prospettiva.
Manca la speranza perché quello che difetta è un approccio valoriale.
Ma se non sperano i cattolici chi spera? L’ottimismo da quatto soldi dell’andrà tutto bene non è speranza.
Eppure noi cattolici spesso “rosichiamo”: non dobbiamo prendercela a male quando le cose non vanno come vorremmo e quando vediamo che altri fanno meglio.
Il cristiano può vedere quello che fanno gli altri e utilizzare la genialità per una narrazione propositiva, non per denigrare l’avversario.
Non dobbiamo limitarci a giocare in difesa ma dobbiamo gestire noi la palla.
Noi crediamo in Dio che aveva tutte le ragioni per rosicare. Ma non è pensabile un Gesù Cristo che, innocente tra i due ladroni, al posto di fare il capolavoro della storia avesse scelto di salvare se stesso.
-Massimiliano Cavallo (La Guida)